Spleengate

sabato 26 dicembre 2020

IL GIARDINO DI LILITH: Non siamo di plastica; basta con il tabù delle mestruazioni


 

Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla. Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.


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Non siamo di plastica; basta con il tabù delle mestruazioni

“Le mestruazioni sono strettamente legate alla sessualità e in particolare ai suoi aspetti estetici e meno gradevoli. Non siamo bambole di plastica, ma corpi fatti di carne e ossa, corpi che hanno odori e secrezioni, corpi che svolgono le loro attività fisiologiche come natura e biologia intendono.” (Federica Pari – Blog Soft Revolution)

Parlare di mestruazioni è molto più necessario di quanto si pensi: innanzitutto per allontanarci da quell’immagine fasulla di femminilità assoluta e perfezione estetica.
Ma anche perché, nonostante ogni donna sana sul pianeta abbia il ciclo ogni mese, per tutto l’arco della sua vita fertile, le mestruazioni rimangono un tabù anche nelle culture occidentali più avanzate.

Ancora nel 2020, gli assorbenti costano come un bene di lusso, costringendo noi donne a pagare il prezzo di una politica fatta di uomini, poco consapevoli della quotidianità femminile. A tale costo, andiamo ad aggiungere quello eventuale degli antidolorifici e degli anticoncezionali… Per darvi un’idea pratica, una donna media italiana che fa uso di tutti e tre gli elementi, può arrivare ad una spesa mensile di 150 euro e più (senza nemmeno contare le visite mediche connesse). Come può un aspetto naturale, comune a tre quarti degli esseri umani, rivelarsi un peso economico non indifferente e non accessibile a chiunque?
Ma il problema non è solo monetario, bensì pratico e quotidiano. Colpa degli stereotipi e di un’immagine sfigurata del ciclo, ma anche frutto dell’ignoranza sul tema, noi donne ci ritroviamo spesso in situazioni scomode e insostenibili.
La maggior parte dei luoghi non è attrezzata ancora igienicamente per accogliere le donne quando hanno le mestruazioni. Assenza di pratici distributori, bagni pubblici privi di cestini e appositi sacchetti, o igienizzanti che facilitino la fruizione; addirittura luoghi dove i servizi igienici sono totalmente impraticabili (località marittime e di montagna solitamente), come se le donne non li frequentassero proprio. Tante lettrici si ritroveranno in questo discorso, ricordando situazioni di disagio, eventi mancati e occasioni sfuggite perché il ciclo non lo permetteva.

Ignoranza e totale silenzio: delineato un simile contesto, risulta difficile a chiunque non ammettere la ragionevolezza del concetto “riappropriarsi delle mestruazioni, per riappropriarsi dei propri diritti” promulgato da alcuni movimenti femministi.

A patire di più il poco dialogo sul tema, sono spesso e soprattutto le giovani, ancora non consapevoli al 100% del loro corpo e delle sue funzioni. Ad esempio, ancora oggi molte ragazze nascondono gli assorbenti dentro le maniche o in tasca, quando vanno in bagno per cambiarsi e si vergognano ad acquistare prodotti per l’igiene femminile; evitano alcune attività quotidiane quando hanno le mestruazioni e limitano il più possibile le conversazioni che riguardano l’argomento.
Non sono da meno però le adulte: nessuna potrà negare di aver nascosto di avere il ciclo almeno una volta, come fosse qualcosa di cui vergognarsi (di “impuro” e “sporco”) ad amici, parenti, partner o colleghi; o abbia preferito “imbottirsi” di medicinali per evitare possibili ripercussioni esterne e interne alla presenza del ciclo.
E se da un lato, girano ancora attorno alla mestruazioni credenze, mistificazioni e stereotipi – come il nervosismo, per nulla comune a tutte e spesso usato come insulto sessista o le difficoltà legate alla sfera sessuale, ancora sussistenti per molti/e -; dall’altro, nulla viene fatto per aumentare la serenità attorno a questo evento naturale: dolori e disagi devono essere vissuti nell’intimo e nel silenzio, fingendo una purezza ed una perfezione costante, non concependo l’idea di avere permessi lavorativi (ad es.) o deroghe di nessun tipo.

Secondo la sociologa inglese Sophie Laws, nelle nostre società il tabù delle mestruazioni si è semplicemente trasformato in un bon ton, coerente alla nostra attenzione al pulito e a un corpo idealizzato: non è così difficile darle ragione.
Ci comportiamo, nei confronti del ciclo, come se fosse una bruttura e ne volessimo quasi negare l’esistenza ad ogni costo, o comunque relegarlo a qualcosa di marginale e poco importante, anziché lavorare per un’educazione – sia femminile, che maschile - a tal riguardo.

Il dialogo sulle mestruazioni diventa quindi un concetto chiave nella parità di genere, perché altrimenti è inevitabile che la donna si ritroverà sempre in una situazione di partenza di svantaggio, avendo (oltre a mille altri) un ostacolo notevole nella gestione quotidiana. L’accettazione e l’attuazione di comportamenti e strategie per permettere alle donne di viverlo con serenità, devono rappresentare un passo imprescindibile nelle lotte di genere.
Ironico come i tentativi in tal senso siano molteplici eppure sempre parziali: lotte per abituare le persone alla vista del sangue nelle pubblicità, ma sempre con molta cautela; stereotipi esagerati dall’altro lato, raffiguranti donne sempre ed esclusivamente performanti; e, allo stesso tempo, rappresentazioni di donne che vivono ancora nel terrore di sporcarsi in pubblico.
Decisamente più ironico è forse il fatto stesso di per sé, ossia che ci sia ancora il bisogno di “normalizzare il normale”, la base stessa della creazione della vita, un aspetto condizionato alla stessa funzionalità del corpo umano di sesso femminile.

Élise Thiébaut, giornalista e saggista francese ha affermato: “perché ci troviamo in questo sistema di dominazione e non abbiamo fatto i progressi che ci saremmo aspettate? Ha sicuramente a che fare con la nostra autostima. Le donne sono convinte della loro inferiorità. Perché succede? La mia ipotesi è che, dato che sanguiniamo ogni mese per oltre 40 anni della nostra vita, siamo convinte di essere ripugnanti, che dobbiamo vergognarci di ciò che accade al nostro corpo”.

Viene da chiedersi se possa avere o meno ragione.
In ogni caso, però, ci fa comprendere quanto la normalizzazione del ciclo mestruale femminile sia un passaggio fondamentale se si vuole raggiungere maggior consapevolezza e la conquista definitiva dei diritti che spettano alla donna in questa società ancora fortemente impregnata di maschilismo.

Isabella Rosa Pivot 

(Originariamente pubblicato su www.valledaostaglocal.it)

mercoledì 25 novembre 2020

IL GIARDINO DI LILITH: Gli effetti negativi della mancata educazione sessuale in VdA

 INTERVISTA A LORENA BONFANTI, OSTETRICA 



Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.


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Gli effetti negativi della mancata educazione sessuale in VdA

Giovani donne con anche cinque o sei aborti alle spalle, o che utilizzano la pillola del giorno dopo come contraccettivo. No, non è la situazione valdostana (forse italiana) del secolo scorso, ma quella odierna: come è possibile che nel 2020, con una simile quantità di precauzioni disponili, vi sia ancora una tale incoscienza?

L’aborto è un diritto e come tale, va tutelato. Al contempo, è necessario responsabilizzare una simile scelta e dare gli strumenti necessari ai giovani, affinché non sminuiscano il valore delle loro azioni.
L’educazione sessuale che viene fatta risulta essere insufficiente: un mix di paura, giudizi, costi e superficialità, colpisce le giovani ragazze e genera un sistema preoccupante di cui bisognerebbe trattare maggiormente.

Ho parlato di tutto ciò con Lorena Bonfanti, Ostetrica al reparto di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale valdostano Beauregard.

C’è un uso corretto della pillola del giorno dopo tra le giovani?

No, assolutamente: viene spesso utilizzata come “contraccettivo” ordinario, quando invece dovrebbe essere usata in casi di emergenza. Per chiarezza a tal proposito, fino a qualche tempo fa, dai 18 anni in su la pillola del giorno dopo si poteva prendere senza prescrizione medica. Per quanto concerneva invece le minorenni, queste necessitavano comunque della presenza di un genitore e della prescrizione. Di queste ultime, non tutte si rivolgevano a noi al Pronto Soccorso, poiché poteva essere prescritta anche dal medico della mutua. Capitavano molte minorenni che, quando venivano a conoscenza della necessaria presenza di un genitore, decidevano di non tornare.Dall’8 ottobre 2020, una legge ha stabilito che la pillola del giorno dopo possa essere acquistata senza l’obbligo di prescrizione medica sia dalle maggiorenni, che dalle minorenni.

Per quanto concerne l’aborto, invece: le giovani vi ricorrono spesso?

L’aborto è piuttosto frequente.
Dalle cartelle cliniche vedo che certe ragazze hanno anche cinque o sei aborti alle spalle ed è una quantità davvero esagerata. In primo luogo, perché si tratta comunque di un intervento chirurgico e, in quanto tale, può comportare dei rischi e delle complicazioni. In secondo luogo, perché si tratta di un carico emotivo abnorme, capace di segnare una donna per tutta la vita. Tieni conto che noi facciamo di media un’interruzione chirurgica di gravidanza alla settimana e molteplici sedute della pillola abortiva. Per un totale di 4 aborti circa in Valle d’Aosta, a settimana. Rispetto all’informazione e all’accesso ai contraccettivi, è sicuramente un numero estremamente alto.

Ritieni che l’educazione sessuale sia sufficiente?

Alla luce di tutto ciò, decisamente no. Ho fatto educazione sessuale in una scuola media per due anni, comprensiva di sole due ore in tutto l’anno… pochissimo. Non si riesce a trattare nemmeno la metà degli argomenti. Per non dire che, per parlare di tematiche simili, risulterebbe necessaria una certa confidenza, in modo che il gruppo possa sentirsi a suo agio nel porre determinate domande. A quell’età (12-14 anni), appena usi termini come “pene” e “vagina” scoppiano a ridere. Per quanto concerne l’informazione post-aborto, invece, la legge parla chiaro: il medico deve farti una spiegazione esaustiva a seguito dell’intervento e tu dovresti già uscire dallo studio con la prescrizione di una pillola contraccettiva. Neanche questo purtroppo avviene. Sia perché le donne non la chiedono, ma anche perché i ginecologi non la prescrivono. Da segnalare, però, una cosa bellissima presente in Valle d’Aosta: durante l’intervento di Interruzione di Gravidanza, è possibile posizionare gratuitamente una spirale. Chiederla ha un costo di 90/100 euro ed invece in tali casi è possibile averla gratis, risolvendo per 3/5 anni il problema contraccettivo; per poi toglierla nel momento in cui si desiderano dei figli. La cosa assurda è che in pochissime aderiscono: solo il 20% la prende come una buona opzione.

Anche l’informazione sulle malattie sessualmente trasmissibili è dunque carente?

A tal riguardo l’informazione è un po’ più elevata, forse anche grazie al contesto familiare e ai social network che vi dedicano più attenzione. Bisogna comunque ammettere che i ragazzi a conoscenza dei reali rischi sono pochi.

Da quanto le scuole non ti chiamano per fare educazione sessuale?

In realtà, si tratta di un problema perlopiù organizzativo. Io sono dipendente ASL e lavoro a tempo pieno: non posso avere un secondo lavoro. Inizialmente, andavo gratuitamente e per passione. Poi mi sono resa conto che il nostro tempo, la nostra formazione e la nostra professionalità di ostetriche andrebbe remunerata anche sotto tale aspetto. Le scuole dovrebbero tutte affidarsi ai consultori e pagare questo servizio, senza appoggiarsi ad una mera disponibilità singola.

Mi chiedo se sia solo il riflesso di una mancanza d’ informazione ed educazione sessuale, o se vi sia anche una paura del giudizio dei genitori, da parte di queste ragazze.

Sicuramente, per i genitori di alcune generazioni il sesso rappresenta ancora un tabù. Il genitore tende a delegare il compito dell’educazione sessuale alla scuola o ad altri enti. Ho parlato con alcune di queste ragazze e molte temono il giudizio dei genitori, tanto che quando appunto ricevevo delle chiamate per la pillola del giorno dopo ed avvisavo della necessaria presenza del tutore (quindi del genitore) - da pochissimo non più necessario -, queste non avevano delle belle reazioni: “allora i miei devono sapere che ho fatto sesso!” e spesso si scoraggiavano. Naturalmente, erano poi comunque costrette a parlarne. O, almeno, quelle con più coscienza… Altre lasciavano perdere, per poi ritrovarsi obbligate a farlo successivamente, a causa di una gravidanza.

Un ragazza, a chi potrebbe rivolgersi per dei consigli e delle informazioni?

Ai consultori gratuiti, che sono tanti: ad es., Aosta. St. Pierre, Morgex, Chatillon, Donnas, Variney, Pont Suaz,... Per intenderci, gli stessi in cui si va a fare il Pap Test. Non c’è uno sportello dove prendere appuntamento: a Genova, dove feci il tirocinio, v’era uno sportello con un’ostetrica fissa tutto il giorno accompagnata da una psicologa, a cui si poteva accedere senza appuntamento. Qui manca, ma l’ostetrica è sempre presente. Vi è inoltre il Pangolo, un consultorio per adolescenti e famiglie, che svolge prevalentemente una funzione preventiva. Come dicevo a scuola, bisogna prendere comunque come riferimento le ostetriche, perché è il nostro lavoro: possiamo indirizzare le ragazze nella scelta del contraccettivo, ma anche aiutarle ad affrontare il discorso con i genitori. Da rimarcare però, il grosso problema della mancanza di definizione del lavoro in ambito consultoriale. Nonostante questo, il profilo professionale dell’ostetrica è proprio quello di indirizzare le donne (solo le donne, purtroppo) nella sessualità, durante la loro vita fertile.

Isabella Rosa Pivot

(Articolo originario su: www.valledaostaglocal.it)


 

IL GIARDINO DI LILITH: Sul podio della disoccupazione femminile

 Non possiamo permettere che la ripresa dalla pandemia porti ad ignorare le esigenze di metà della popolazione



Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.


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Sul podio della disoccupazione femminile


Il titolo si riferisce all’ennesimo primato vergognoso dell’Italia: il nostro paese ha il più alto tasso di disoccupazione femminile d’Europa.

Il 16 Ottobre 2020 è uscita la quinta edizione del Gender Equality Index, uno degli indici sulla parità di genere sviluppati e aggiornati dall’UE, creati al fine di incoraggiare gli Stati membri a prestare maggiore attenzione alla disuguaglianza di genere.
Ad un primo sguardo dell’analisi potrebbe sembrare che il nostro paese abbia ottenuto un ottimo risultato: ci siamo infatti classificati al 14esimo posto (su 28), con un incremento di 10,2 punti rispetto al 2010.
Osservando più nel dettaglio, però, possiamo notare come l’incremento riguardi solo i vertici più alti della società, non permettendo quindi di parlare di una reale uguaglianza dei sessi.

Grazie alle quote di genere, abbiamo ottenuto il 35% di rappresentanza femminile in politica e, a seguito dell’obbligo di una presenza minima di donne all’interno dei cda delle aziende quotate in borsa, il 37% anche in quell’ambito. Insomma, le “imposizioni” alla parità, si sono confermate tanto utili quanto necessarie.

Al contempo, siamo messi malissimo per quanto riguarda l’occupazione: solo il 30% delle donne italiane ha un lavoro a tempo indeterminato, mentre la media europea sfiora il 42%. Anche gli stipendi sono vergognosamente bassi, restando di un quinto inferiore rispetto ai corrispondenti maschili; per non parlare della questione relativa al part-time volontario, che fa comprendere come ancora nel 2020, sia esclusivamente la donna a sacrificare la carriera a favore del mantenimento pratico e quotidiano familiare.

Altro dato preoccupante è quello che riguarda le prospettive di carriera: l’Italia ha appena 52 punti su 100, contro la media europea di 64, confermando la sentita difficoltà di avanzare lavorativamente per le donne. Insomma, questa recente analisi ci permette di capire che, in fin dei conti, la situazione del nostro paese a tal riguardo non è molto migliorata dal 2010, quando eravamo oltretutto afflitti dalla crisi del 2008.

Viene da preoccuparsi non poco, vista la crisi odierna e da chiedersi se quest’ultima non porterà un ulteriore passo indietro, nel quadro di una situazione già abbastanza triste. Pensiamo solo all’incremento della violenza domestica e del carico relativo alla cura dei figli, che la pandemia da Covid-19 ha portato con sé.

Questi dati dovrebbero farci prendere maggiore coscienza della disparità di genere che attanaglia il nostro paese e darci motivazione ancora più forte per combattere il sistema attuale, al fine di ridurre sempre di più il gap ingiusto che divide i due sessi.
Muovere azioni in tal senso, premendo sulla classe politica, dovrebbe essere infatti interesse primario delle donne, ma anche degli uomini: basti pensare che, secondo la Banca d’Italia, se l’occupazione femminile arrivasse al 60%, il Pil aumenterebbe del 7%.

Non possiamo permettere che la ripresa dalla pandemia porti ad ignorare le esigenze di metà della popolazione.
Non possiamo far finta di nulla e non alzare nemmeno la voce di fronte a simili dati e risultati: un’emergenza sanitaria non deve diventare la scusa per perpetrare una tale ed evidente ingiustizia.

Isabella Rosa Pivot

(Articolo originale: www. valledaostaglocal.it)

IL GIARDINO DI LILITH: La Retorica Sbagliata sull’Aborto

 

Quando in Italia si discute d’ interruzione di gravidanza – anche in ambienti che dovrebbero essere decisamente più aperti ed evoluti -, si ha sempre un retrogusto di accordabilità limitata, come se potesse venire accettato solo se si trattasse di una scelta dolorosa e sofferta


IL GIARDINO DI LILITH: La Retorica Sbagliata sull’Aborto

Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.

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La Retorica Sbagliata sull’Aborto



La legge 194 è stata approvata quarant’anni fa, eppure il Diritto all’Interruzione di Gravidanza è ben lungi dall’essere garantito. A inizio ottobre, il Consiglio Comunale di Verona ha approvato una mozione circa il finanziamento di associazioni per iniziative contro l’aborto.

Il 13 ottobre, anche a Milano e a Caserta, il “Comitato No194”, fautore della battaglia per abolire con un referendum la legge del 1978, ha manifestato nuovamente in piazza. Il loro obiettivo sarebbe quello di abrogare la 194 e di sostituirla con una legge che punisca donna e medici con la reclusione da 8 a 12 anni.

Questi sono solo alcuni dei fatti che stanno minando il diritto all’aborto in Italia, faticosamente conquistato dalle donne. Per non parlare poi della situazione relativa ai medici obiettori di coscienza, che sono in costante aumento: nel 2005 la percentuale degli obiettori in Italia era poco più della metà, il 58%; nel 2016 era già salita al 71%.

Un aumento che non si è arrestato e, per quanto la legge preveda che ogni ospedale debba erogare l’interruzione di gravidanza, ciò accade solo nel 60% dellle strutture. Situazione peggiorata dal Covid-19 e dalle problematiche sanitarie che ha comportato. Non sorprende quindi che, in un quadro simile, sia tornato in auge l’aborto clandestino: secondo l’Istituto Nazionale della Sanità, si praticano ancora oggi circa 20.000 interruzioni di gravidanza illegali all’anno.

Il problema, però, è anche come si parla dell’aborto in generale. Quando in Italia si discute d’ interruzione di gravidanza – anche in ambienti che dovrebbero essere decisamente più aperti ed evoluti -, si ha sempre un retrogusto di accordabilità limitata, come se potesse venire accettato solo se si trattasse di una scelta dolorosa e sofferta. Pare quasi che richieda “un pegno” da pagare per  ottenere la redenzione agli occhi della società: deve avere per forza un certo grado di dolore traumatico che lo accompagna, una vera e propria “giustificazione” per la scelta intrapresa. Forse, se tutt’ora la legge 194 subisce attacchi, è anche causa di chi ne parla sotto queste vesti, attraverso la retorica della sofferenza.

Poco tempo fa, il Journal of History of Medecine, ha pubblicato un articolo in cui parlava di come i paesi cattolici – tra cui l’Italia – affrontassero l’argomento dell’aborto in termini più morali che scientifici: il discorso pubblico al riguardo parte dal pressuposto che si tratti di un’irregolarità, riservata a donne irresponsabili, madri degeneri o vittime di una situazione economica e sociale precaria.

Non viene mai preso in considerazione che possa trattarsi di una scelta presa con sicurezza e determinazione per pura volontà personale. Le casistiche precedenti non sono false, ma non sono al contempo rappresentative in toto della realtà effettiva, che dovrebbe rimanere in ogni caso priva di giudizi. La convinzione di base che abortire precluda necessariamente una costrizione dettata dall’esterno o dalla sfortuna genetica, rientra in quella retorica paternalistica che danneggia la libertà intrinseca alla 194.

Sostenere l’IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza) significa lottare per l’autodeterminazione femminile, oltre a proteggere un diritto non sindacabile della Donna. Per farlo, è necessario anche affontare il discorso senza partire dal presupposto che si tratti di un’azione errata per la quale sentirsi in colpa; o un evento forzatamente tragico, che non vedeva alternative: un simile giudizio, all’apparenza non solo innocuo, ma che talune volte potrebbe addirittura assumere le sembianze di difensore della legge 194, rafforza la contraddizione di base attorno al diritto ed alla sua applicabilità… Aiutando ad ingrandire così le forze che vogliono ostacolarlo.

Isabella Rosa Pivot

(Articolo originale: www.valledaostaglocal.it)
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sabato 24 ottobre 2020

IL GIARDINO DI LILITH: IL COMPLESSO DI DIDONE: quando la donna forte s’innamora dell’inetto

 

“Io stessa non sono mai stata in grado di scoprire cosa è esattamente il femminismo; so solo che la gente mi chiama femminista ogni volta che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino.” (Rebecca West)


IL COMPLESSO DI DIDONE: quando la donna forte s’innamora dell’inetto

Didone è una figura mitologica, probabilmente il mio personaggio preferito dell’Eneide.

Forse perché è una delle poche donne davvero toste dei testi antichi, ma anche per la contraddizione di fondo della sua storia, tanto piena di gloria quanto di debolezza umana.

Tante sono le donne in gamba e indipendenti che, come lei, cascano nel tranello dell’inetto avvelenato dallo spleen: ma perché?


Didone rappresenta tutto ciò che una donna, con un minimo di intelligenza, vorrebbe essere:

- bella.

Ma non di quella bellezza plasticata che ci propinano come figura di riferimento. Didone è di una bellezza che trascende l’età e le rughe, che va oltre le scollature e le labbra rigonfie. La vera bellezza è questione di fascino e questo personaggio, non più giovanissimo, ne ha a quintali.

- di carattere.

Didone rimane vedova di un uomo che ha amato. Essendo Regina, il cognato le propone di sposarlo per farlo diventare Re, al fine di conservare il potere regale… Ma a lei l’ “accomodamento” non piace proprio e preferisce la libertà: rinuncia a tutto e se ne va. Presa di posizione che, generazioni di donne prima, avrebbero faticato anche solo a pensare.

- intelligente.

Didone fonda una città. Nel mondo antico non ci sono donne fondatrici di città, nemmeno nel mito. Lei, invece, ottiene con l’astuzia una terra e ci fonda Cartagine, capitale futura di ogni rotta commerciale. Dove c’era una palude, lei ci vede un porto strategico; dove c’erano contadini sparsi, lei crea un popolo unito: se non è capacità ed intelligenza questa…

Insomma, una Donna con la “D" maiuscola, la regina Didone.

Come fa dunque una simile donna a cascare ai piedi di un uomo come Enea? Ok, ha la madre Dea, ma una suocera simile risulta più un incubo che un vantaggio. Giunge da lei distrutto con poco più di mezza nave, scaraventato dal fato, pieno di malinconia.

Sfuggita ad ogni uomo che voleva incatenarla, sconfiggerla e sottometterla, non riesce però a resistere all’incantesimo del principe dei Dardani.

Si amano, ma tra loro è tutto un tira e molla: lui se ne sta lì, tutto il giorno sul davanzale, a scrutare l’infinito delle sue angoscie e delle sue paure. Rimorsi per la moglie perduta, controllo materno, nostalgia di qualcosa che non esiste.

Didone è angosciata, non capisce. Già deve governare una città e gestire mille problemi… Se Enea avesse un paese a cui tornare come Ulisse e una donna che lo attende, potrebbe addirittura capire. Ma non c’è nulla, se non questo dolore immotivato che lo tormenta e in cui si crogiola e si culla.

Didone le prova davvero tutte e non molla: ha risolto problemi immensi, come è possibile che non riesca a rendere felice il suo uomo! Con il tempo, addirittura si annulla, per cercare di dimostrargli che non deve sentirsi un fallito.

I suoi sogni passano in secondo piano. D’altronde, è anche lei fragile e bisognosa d’amore come tutti: alla ricerca d’un modo per riversare la sua tenerezza e dolcezza, schiacciate dalle lotte quotidiane in un mondo di uomini.

A Enea, però, non interessa e non basta: non è cattivo, che anzi sarebbe anche meglio; l’uomo perfido lo puoi eliminare facilmente e ti permette persino di giustificare il dolore che crea. Enea, invece, è di quelli che lasciano in sospeso l’anima, che non si capiscono, che fanno soffrire senza far male. Uomini che non vogliono essere salvati, ma che amano crogiolarsi nel dolore e nella melanconia. Buoni e dolci, eppure persi solo in loro stessi.

Enea alla fine scappa di nascosto, come un codardo. Con la scusa di non voler farla soffrire e di essere chiamato al suo destino.

Didone gli aveva dato tutto e così, disperata, si ammazza con la sua stessa spada.

Ecco concretizzata la didoneite. Invece di guardarlo andar via, con sorriso pacato e un velo di tristezza, per poi tornare ai suoi affari… Lei butta tutto all’aria. Invece di riprendere le sue attività più forte di prima, lei si lascia andare. Come può una donna forte, bella e intelligente come Didone cascare in un simile tranello, tra le mani di un uomo tanto inadeguato?

Di Enea in realtà se ne incontrano e può essere comprensibile, dopo tanto tempo di quotidiana lotta, cascarci. Ma giunta la fine, non si può cancellare ogni cosa per un dolore che non ci appartiene.

Le donne toste lo sanno: là fuori è una guerra e non si può mai abbassare la guardia. Anche quelle più forti hanno però bisogno d’amore e calore e in un mondo simile è assai arduo: forse per questo che ogni tanto crollano dinanzi a degli inetti a vivere?

Innamoratevi pure di Enea, signore. Ma non lasciate mai che distrugga la vostra Cartagine.

(Originariamente pubblicato su www.valledaostaglocal.it)

Isabella Rosa Pivot


IL GIARDINO DI LILITH: Sei stressata?


“Io stessa non sono mai stata in grado di scoprire cosa è esattamente il femminismo; so solo che la gente mi chiama femminista ogni volta che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino.” (Rebecca West)

IL GIARDINO DI LILITH: Sei stressata?

Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla. Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.

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Sei stressata?

L'altro giorno, sono andata a bere un caffè con un'amica, che aveva appena finito una visita dal fisioterapista.

Visibilmente irritata, mi raccontò che era stanca che i suoi malesseri venissero costantemente legati allo stress.

"Hai mal di pancia? Stress! Hai le occhiaie, la ritenzione idrica? Colpa dello stress! Senti dolore alla spalla? Sempre e solo stress!!".

Il fisioterapista aveva infatti collegato il suo mal di schiena alla sua situazione emotiva: "gli ho domandato perché, se fossi stata un uomo mi avrebbe chiesto quali pesi avessi alzato;  mentre, visto che sono donna, tutto si riducesse ad una reazione emotiva. Lo trovo irritante e sessista. Ho passato il fine settimana a fare il giardino, faccio la spesa quasi ogni giorno con mia figlia legata al petto e ho spostato un mobile a casa... Forse, ho semplicemente la schiena a pezzi".

Confesso che, inizialmente, avevo trovato la sua reazione esagerata. Prendersela con il fisioterapista per una 'sottigliezza' simile mi pareva proprio un effetto dello stress che tanto rinnegava: che ne poteva sapere lui di tutti i lavori fisici che faceva, d'altronde? I giorni a seguire però, pensai molto alle sue parole ed ai miei pensieri relativi: in effetti, la mia amica non aveva tutti i torti. Era proprio il fatto che il fisioterapista non considerasse la possibilità che lei facesse sforzi fisici di una certa entità, il problema.

Ripensai a quante volte le mie reazioni venissero additate direttamente e banalmente allo stress. E a quante poche volte mi era capitato di sentire una giustificazione simile per un uomo.

–    Se sei di cattivo umore, sei stressata per gli ormoni.

–    Se ti arrabbi, sei stressata e ti manca il sesso.

–    Se hai dei malesseri fisici, è sicuramente esaurimento nervoso.

Se da un lato, le donne sono spesso costrette ad occuparsi di troppe cose, portandole inevitabilmente ad essere sottopressione, dall'altro non dovrebbe essere un automatismo prendere per scontato questo stress come giustificazione di ogni nostra reazione emotiva né, al contempo, accettarlo se davvero presente.

Lo "stress" è l' "Isteria femminile" dei giorni nostri: proprio come nel '600, le reazioni ed i malesseri femminili vengono quasi unicamente associati ad una psiconevrosi.

Come se fosse impossibile dissociare il concetto di donna da un'influenza emotiva costante e invalidante.

E mentre la donna vede sminuire ogni suo disagio in un problema psicologico limitante, all'uomo viene tolto il diritto a questa giustificazione emotiva.

Perché come ogni medaglia, anche l'iniquità ha due facce: se la donna viene considerata schiava delle sue emozioni e perciò irrazionale; se ogni suo male è perlopiù mentale e dunque da lei stessa creato... L'uomo d'altro canto deve dimostrarsi costantemente all'altezza di una razionalità priva di sbalzi ormonali. Deve essere forte ed avere i nervi saldi.

Un uomo non può cedere allo stress: potrà al massimo esser stanco, dopo una giornata od un periodo intenso. Se si piega alle influenze emotive è un uomo debole, incapace di rappresentare il giusto sostegno per la sua famiglia.

La donna è spesso esageratamente pressata e perciò sminuita, come se fosse costantemente in preda alla sue emozioni, rendendo impossibile prenderla sul serio; nel dolore, come nella vita quotidiana.

L'uomo viene invece incatenato nella mistificazione della forza, senza il sollievo della presa di coscienza dei suoi stati emotivi. Non gli è concessa la debolezza dello stress, del cedimento psicologico.

Questo è ciò che traspare da un'analisi più profonda di quel banale e apparentemente innocuo "sei stressata?".

Un dettaglio, un vocabolo, una minuzia linguistica nella lotta verso la parità dei sessi? Può darsi... Ma come diceva Harvey S. Firestone, "Il successo è la somma dei dettagli".

(Originariamente pubblicato su www.valledaostaglocal.it)

Isabella Rosa Pivot

mercoledì 16 settembre 2020

IL GIARDINO DI LILITH: Femministe al Rogo

 

“Io stessa non sono mai stata in grado di scoprire cosa è esattamente il femminismo; so solo che la gente mi chiama femminista ogni volta che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino.” (Rebecca West)



Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.

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Femministe al Rogo

La storia del femminismo è fatta di molteplici battaglie e ben poche conquiste. Di certo, non vi è mai stata una totale inversione di rotta nel potere di genere. Ai miei occhi risulta quindi spesso incomprensibile l'immagine contemporanea che viene affiancata a quella della "femminista".

Per la concezione sociale comune, sia a molti uomini che donne, costei viene vista come una sorta di mostro abnorme e perlopiù irritante: una figura trasandata ed aggressiva, con l'unico scopo di sottomettere gli uomini e spaesare le coscienze con cambi di ruolo e rinuncia totale a ceretta e make up.

Le femministe sono le nuove streghe da cacciare e mettere al rogo: vogliono il caos in un mondo che, a detta di molti, non era perfetto ma "andava meglio". Attaccano, con furia permanente, ogni uomo che osi anche solo ironizzare o respirare.

Inutile il tempo usato a spiegare che il femminismo non corrisponde a nulla di tutto questo, ma che mira alla parità, all'equità e ad un benessere individuale e sociale generale, aumentando comprensione e adattando i ragionamenti sociali alle esigenze diverse che caratterizzano l'essere umano.

La concezione del femminismo ha ormai assunto un risvolto negativo, che pare impossibile da cancellare.

Perché una visione tanto errata e pessimista di un movimento che porterebbe sì, al giusto equilibrio di diritti tra uomo e donna, ma anche notevoli vantaggi per ambo i sessi?

La risposta più immediata potrebbe essere: la paura.

Gli umani, per lo più, hanno a cuore soprattutto sé stessi e le persone che fanno parte della loro ristretta cerchia parentale e amicale. Vedere il loro status quo potenzialmente alterato, causa loro una sensazione di disequilibrio che non porta ad afferrare gli eventuali vantaggi di una diversa visione, ma solo il disagio che il passaggio di mentalità comporta.

A ciò, si aggiunga l'aggravante della disinformazione diffusa: tante persone raccattano le prime idee di cui vengono a conoscenza e che danno loro la sensazione di essere largamente condivise. «Se molti ci credono, deve essere una cosa giusta. Quindi devo crederci anch’io»... attraverso tale logica, anche colui che non ha avvertito un disagio diretto, si sente preso in causa ed invogliato ad assumere tale posizione.

Nonostante le apparenze però, non si tratta di irrazionalità. Semplicemente, su ciò che conosciamo poco (perché, in fondo, ci interessa poco) non possiamo fare altro che affidarci a stereotipi, slogan e frasi fatte.

A tale breve spiegazione, vorrei però aggiungerne un'altra, decisamente personale.

Proprio perché sono un'accanita sostenitrice dell'impossibilità di cambiare la situazione circostante senza prima aver tentato di lavorare su sé stessi, ritengo che una parte della responsibilità sia del femminismo stesso.

Nel corso degli anni, le donne si sono limitate – anche per ovvia necessità – a combattere per ottenere i diritti più basilari, senza porsi la questione di adattarli in primis alla diversità dell'universo femminile.

Mi spiego meglio: la tendenza attuale del femminismo è spesso quella di cercare una somiglianza di comportamento similare (se non addirittura sovrapponibile) a quella degli uomini. Equità non significa uguaglianza e la parità di diritti dovrebbe racchiudere essa stessa una diversità di fondo.

Pretendiamo semplicemente giudizi e riconoscimenti equivalenti, accontentandoci di adattarci ad una situazione vecchia secoli ed assai rigida. L'obiettivo principale dovrebbe invece essere quello di abbattere del tutto questi schemi arcaici per crearne di nuovi, che siano modellabili sia sull'uomo che sulla donna, che ha – al contrario di quanto pare dimostrare talune volte – esigenze ben diverse dall'universo maschile e che coglierebbero meglio i suoi diritti e la sua libertà.

Sgomitare e pretendere spazio in una "casa già abitata" può infatti portare alla sensazione, per i padroni di casa, di essere spodestati e di perdere completamente la propria sicurezza. Benché sia sbagliato che quella "casa" veda degli unici padroni, il risentimento interno potrebbe far apparire le vittime quali carnefici ad un giudizio anche esterno.

Perché allora, non costruire qualcosa di nuovo da zero e, una volta visti gli effetti positivi di una dimora democratica e meritocratica, attendere che siano gli stessi vecchi padroni ad aver voglia di buttar giù quella vicina, ormai piena di muffa e dalle pareti crollate?

Isabella Rosa Pivot

(Articolo originale: www.valledaostaglocal.it)

venerdì 11 settembre 2020

IL GIARDINO DI LILITH: La donna di oggi è davvero indipendente?

 

Lilith è Donna. È un aspetto - o più - del nostro carattere. È irriverenza verso un sistema che deve cambiare


Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.

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DONNE INVIDIOSE


L’invidia esiste ed è un sentimento della natura umana, presente e condiviso sia dagli uomini che dalle donne.

Eppure, la società fa maggiormente leva sull’invidia femminile: opinione comune è infatti che le donne fatichino ad andare d'accordo tra loro, continuamente divise da competizione accesa e pettegolezzi.

Risulta necessario scardinare questa convinzione errata, poiché la realtà è ben diversa:  le donne sono dotate di grande sensibilità. Si confrontano e sostengono tra loro.

Può ovviamente capitare che litighino, ma sono in grado di chiarire con lucidità, creando così relazioni di amicizia forti e profonde.

Il motivo per cui questo stereotipo permea ancora le nostri menti è legato all'istigazione sociale alla competizione tra donne.

La donna di oggi deve essere sia una compagna (o moglie) in grado di soddisfare il proprio uomo,  che una madre accorta, professionale ed ambiziosa lavorativamente, ma anche amica presente;

ovviamente, mantenendo un aspetto fisico costantemente impeccabile.
Da queste pretese ambiziose e irraggiungibili quanto la perfezione stessa, non può che svilupparsi un’invidia superficiale, istigata appunto dalla mancata soddisfazione di tali pretese verso se stesse; da tale rappresentazione che ci porta a sminuire la nostra figura immancabilmente lontana dai canoni richiesti.

In tale contesto, il confronto è inevitabile: in un modo legato all'apparenza, la realtà viene sfumata dai filtri dei social e dei media, facendoci sentire le uniche a non ottenere il successo in ogni campo; ecco, dunque, a chiederci "perché lei sì ed io no? Cosa ho di sbagliato?"

Un confronto dettato da parametri culturali imposti, che fanno inseguire canoni e obiettivi sbagliati o irreali.
Lo stesso stereotipo alimenta dunque questa "invidia femminile", sulla quale la società investe tempo e denaro, poiché redditizia e vantaggiosa. Un'invidia meno presente nel mondo maschile: vero, ma solo perché meno influenzato dalla dinamica del confronto schiavistico del nostro sistema economico.

Dimostrazione dell'assenza istintiva, o naturale, di questo sentimento è la forte collaborazione e l'elevato sostegno che dimostrano le donne nei rapporti di amicizia e di lavoro che permettono una conoscenza del sé maggiore: smontata la perfettibilità dell'altra donna, una volta conosciuta la sua realtà fatta di difficoltà come ogni altro essere umano, crolla anche il sentimento accusatorio verso se stesse.

Le donne dovrebbero ricordarsi del loro enorme valore, andando al di là degli stereotipi che ogni giorno ci vengono propinati. Una volta compreso che è impossibile "essere tutto" e che ognuna di noi ha qualità uniche, capacità ed obiettivi diversi, il concetto sociale di competizione smette di esistere.

E con esso, la stessa invidia superficiale, lasciando il podio all'esemplare e sostanziale amicizia femminile: quest'ultima, ove presente, è talmente forte da abbattere ogni barriera.

Isabella Rosa Pivot

(Articolo originariamente pubblicato su www.valledaostaglocal.it)

IL GIARDINO DI LILITH: Perché le quote rosa sono importanti?

 

Con il passare degli anni di studio, la mia opinione al riguardo si è completamente capovolta e ne ho meglio compreso l’ultilità. Anzi, necessità



Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.

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Perché le quote rosa sono importanti


All’inizio dei miei studi in Scienze Politiche ero contraria alle Quote Rosa: non mi convinceva la teoria secondo cui fossero necessarie per via dell’arretratezza culturale del nostro paese. Con il passare degli anni di studio, la mia opinione al riguardo si è completamente capovolta e ne ho meglio compreso l’ultilità. Anzi, necessità. In questo articolo vorrei riportarvi un punto di vista diverso dai soliti articoli di attacco verso le Quote Rosa, sperando di darvi qualche elemento in più sul quale ragionare a proposito di un tema tanto controverso.

Nippet in primo piano dal Web

“Le  quote rosa sono un rimedio adottato da chi legifera per garantire una "quota" del sesso meno rappresentato nelle istituzioni politiche, nell'economia, nella direzione degli ordini professionali e così via” (Repubblica.it). Sono spesso viste di cattivo occhio, poiché la norma che le impone viene considerata “umiliante” per le lavoratrici e le donne in generale, nonché incostituzionale in quanto crea distinzioni (in questo caso di genere) tra cittadini. In realtà, il loro obiettivo è quello di aprire le porte a tutti i talenti disponibili.

In loro assenza infatti, i dati non lascerebbero scampo: dovremmo davvero incominciare a  pensare che gli uomini siano oggettivamente più bravi delle donne, visto che meno del 5% degli amministratori delegati – in Italia - è donna. Quando si parla di Quote Rosa in politica, è come se ci si dovesse preoccupare che l'obbligo di trovare donne da mettere nelle liste elettorali potrebbe portare a includere persone incapaci e non meritevoli, al solo scopo di pareggiare una discriminzazione fittizia.

Bisogna però rendersi conto che una classe dirigente (soprattutto politica) formata in maggioranza da maschi anziani e attaccata alle proprie comode posizioni di rendita non può che vedere come un problema vero e proprio, nonché un rischio, un rinnovamento che dia spazio a nuovi protagonisti, con modalità diverse da quelle del controllo tradizionale. Con la conseguente marginalizzazione costante femminile, in uno stato di totale assenza di barriere di difesa. In una società stagnante come la nostra, dobiamo iniziare a comprendere che garanzie rigide, anche a livello legislativo, siano ora l’unica via (per quanto ancora non sufficiente), per abbattere lo squilibrio di genere.

Se andiamo ad analizzare i dati, non possiamo che confermare l’importanza rivestita da questa norma in tal senso: Secondo l’Executive Outkool 2019  (il quale analizza le società quotate in Borsa), il numero di donne nei consigli di amministrazione in Italia è arrivato al 36,5%; è cresciuto dunque di ben sei volte in otto anni, da quando è stata introdotta la legge sulle quote rosa (120/2011).

Come ha affermato l’anno scorso  Barbara De Muro, Avvocato di ASLA, Associazione Studi Legali Associati: “È stata importantissima, perché ha permesso di modificare i consigli di amministrazione un po’ forzatamente, facendo entrare donne, ma anche giovani”.

Nei fatti, dunque, non esistendo in toto pari opportunità di partenza (neanche se vengono eliminati gli ostacoli formali), l’effettiva parità non potrà mai essere raggiunta attraverso la sola parità di trattamento, poiché le discriminazioni dirette e un complesso insieme di barriere indirette (culturali e non), impediscono alle donne di condividere il potere politico e non solo.  Le quote e le altre forme di azioni positive sono quindi un mezzo verso la parità di risultato. Nella speranza che rimanga il più temporaneo possibile.

Isabella Rosa Pivot

(Articolo originario: www.valledaostaglocal.it)

mercoledì 5 agosto 2020

IL GIARDINO DI LILITH: L’effetto drammatico del “Pink Washing”

Lilith è Donna. È un aspetto - o più - del nostro carattere. È irriverenza verso un sistema che deve cambiare


Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.

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L’effetto drammatico del “Pink Washing”

Il “Pink Washing” è un miscuglio di pensieri stereotipati ed approssimativi su tutto ciò che riguarda le donne, che va ad infangare e ridicolizzare indirettamente gli ambiti più disparati: politica,  moda, marketing, editoria, ecc.  Nello specifico, si intende una sorta di “lavaggio rosa”, che tinge qualsiasi argomento trattato di questo colore: è l’appropriazione, con conseguente strumentalizzazione, dell’etichetta “a favore alle donne”.

Il Pink Washing non è una pratica esclusiva del genere maschile, per quanto quest’ultimo tenda a farne maggiormente uso per regalare un “contentino” in situazioni di possibile difficoltà consensuale.

Spesso, vi è infatti la tendenza a considerare la lotta contro le discriminazioni un capriccio: alla stregua di chi valuta – al limite dell’assurdo -  l’olocausto come una mera invenzione, sono molti gli uomini che banalizzano le reali problematiche esistenti tra i generi. Ciononostante, vi sono anche tantissime donne che tendono a ricadere in questo meccanismo, sfruttando il valore positivo del femminismo a livello mainstream, al fine di meglio illuminare la propria immagine. Come se far parte di una minoranza o di una lotta a difesa di quest’ultima, potesse in qualche modo rendere in automatico una persona migliore e più determinata.

Per fare degli esempi di questo fenomeno, basti pensare alla logica del rebranding, attuata da molti marchi di moda: per aumentare consenso e vendite, ecco che viene data una lavata di rosa e body positive al prodotto, senza mai cambiare in maniera effettiva la logica e la struttura delle politiche aziendali. Una banale leva per far spendere più soldi alle donne.  Pensiamo altresì al Governo Renzi, andando ora su un piano politico: nacque come quello più “rosa” di sempre: 8 ministri e 8 ministre nominati; una parità del 50%, che però calò sempre più a seguito  delle nomine dei Viceministri e dei Sottosegretari, toccando poi in tempo zero il 27%. Definirsi “Governo Rosa” era però fin troppo appetibile per non continuare a farlo.

Anziché un invito costante ed asfissiante sulla ricerca dell’autostima e dell’accettazione, che fa invece proprio gioco-forza sulle insicurezze delle donne (che ci ha inculcato il sistema patriarcale stesso) e sulla nostra presunta inadeguatezza rispetto al mondo attuale, la rivoluzione femminista avrebbe bisogno di vedere realmente diritti riconosciuti e pari opportunità, con un’azione economica, sociale e politica effettiva.

Questi spot “self help” da deodoranti e shampoo (“Io valgo”, “le donne hanno una marcia in più”,…) finiscono per corrodere ogni ambito dapprima dominato dagli uomini, dando una parvenza irreale di parità, che non fa altro che minarla ancor di più.  Altro esempio lampante è stata la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez al Congresso statunitense di qualche anno fa. I media non hanno evidenziato le sue effettive capacità, ma il suo essere donna e latina, riempiendo le notizie delle foto dei suoi look.

Eppure, Alexandria ha vinto perché ha legato la sua condizione di donna non abbiente all’immagine delle categorie sociali più marginalizzate, difendendo la necessità di un’assicurazione sanitaria nazionale.

Il pink washing è dunque la banalizzazione dell’essere donna. L’idea che il successo femminile, come per la Ocasio-Cortez, sia dovuto al semplice fatto di essere donne.  Anzi, peggio: nonostante questo.

Isabella Rosa Pivot

(Pubblicato originariamente su www.valledaostaglocal.it)

venerdì 24 luglio 2020

IL GIARDINO DI LILITH: Donne invidiose

Lilith è Donna. È un aspetto - o più - del nostro carattere. È irriverenza verso un sistema che deve cambiare





Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.
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DONNE INVIDIOSE
L’invidia esiste ed è un sentimento della natura umana, presente e condiviso sia dagli uomini che dalle donne.
Eppure, la società fa maggiormente leva sull’invidia femminile: opinione comune è infatti che le donne fatichino ad andare d'accordo tra loro, continuamente divise da competizione accesa e pettegolezzi.
Risulta necessario scardinare questa convinzione errata, poiché la realtà è ben diversa:  le donne sono dotate di grande sensibilità. Si confrontano e sostengono tra loro.
Può ovviamente capitare che litighino, ma sono in grado di chiarire con lucidità, creando così relazioni di amicizia forti e profonde.

Il motivo per cui questo stereotipo permea ancora le nostri menti è legato all'istigazione sociale alla competizione tra donne.
La donna di oggi deve essere sia una compagna (o moglie) in grado di soddisfare il proprio uomo,  che una madre accorta, professionale ed ambiziosa lavorativamente, ma anche amica presente;
ovviamente, mantenendo un aspetto fisico costantemente impeccabile.
Da queste pretese ambiziose e irraggiungibili quanto la perfezione stessa, non può che svilupparsi un’invidia superficiale, istigata appunto dalla mancata soddisfazione di tali pretese verso se stesse; da tale rappresentazione che ci porta a sminuire la nostra figura immancabilmente lontana dai canoni richiesti.
In tale contesto, il confronto è inevitabile: in un modo legato all'apparenza, la realtà viene sfumata dai filtri dei social e dei media, facendoci sentire le uniche a non ottenere il successo in ogni campo; ecco, dunque, a chiederci "perché lei sì ed io no? Cosa ho di sbagliato?"
Un confronto dettato da parametri culturali imposti, che fanno inseguire canoni e obiettivi sbagliati o irreali.
Lo stesso stereotipo alimenta dunque questa "invidia femminile", sulla quale la società investe tempo e denaro, poiché redditizia e vantaggiosa. Un'invidia meno presente nel mondo maschile: vero, ma solo perché meno influenzato dalla dinamica del confronto schiavistico del nostro sistema economico.
Dimostrazione dell'assenza istintiva, o naturale, di questo sentimento è la forte collaborazione e l'elevato sostegno che dimostrano le donne nei rapporti di amicizia e di lavoro che permettono una conoscenza del sé maggiore: smontata la perfettibilità dell'altra donna, una volta conosciuta la sua realtà fatta di difficoltà come ogni altro essere umano, crolla anche il sentimento accusatorio verso se stesse.
Le donne dovrebbero ricordarsi del loro enorme valore, andando al di là degli stereotipi che ogni giorno ci vengono proprinati. Una volta compreso che è impossibile "essere tutto" e che ognuna di noi ha qualità uniche, capacità ed obiettivi diversi, il concetto sociale di competizione smette di esistere.
E con esso, la stessa invidia superficiale, lasciando il podio all'esemplare e sostanziale amicizia femminile: quest'ultima, ove presente, è talmente forte da abbattere ogni barriera.

Isabella Rosa Pivot

(Originariamente pubblicato su www.valledaostaglocal.it)

IL GIARDINO DI LILITH: It's a Man's World: disparità di genere nel lavoro


Lilith è Donna. È un aspetto - o più - del nostro carattere. È irriverenza verso un sistema che deve cambiare





Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.
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It's a Man's World: disparità di genere nel lavoro
"It's a Man's Man's Man's World", cantava James Brown nell'ormai lontano 1966, sottolineando una verità purtroppo ancora valida ai nostri giorni: non è un mondo per le Donne. Soprattutto quello del lavoro.
Dal movimento femminista degli anni 70′, in effetti, sono stati molti i cambiamenti per le donne, in Italia e nel mondo. Eppure, in un passato relativamente recente alle donne sposate non era nemmeno consentito disporre del reddito proveniente dal proprio lavoro.
La realtà è che la battaglia verso pari opportunità lavorative è ben lungi dall'essere conclusa.
Il fattore ironico è che il contesto socio-economico attuale presuppone sempre di più la necessità di un doppio reddito per far fronte alle spese familiari, senza al contempo lasciare la possibilità alle donne di conciliare lavoro e vita domestica. La scelta tra la famiglia o la carriera risulta spesso una decisione di alternativa obbligata, portando numerose difficoltà nella crescita professionale e/o personale della donna.
Secondo i dati Istat, le donne dedicano al lavoro domestico - nella fascia d’età tra i 25 e i 44 anni -  3 ore e 25 minuti al giorno, contro un’ora e 22 minuti degli uomini. Questo impegno orario va chiaramente a definire anche la curva del tasso di disoccupazione femminile: secondo l'Eurostat, dal 62,2% per le donne italiane senza figli si scende al 58,4% di occupazione per le donne con un figlio (la media europea è del 72,5%), arrivando al 41,4% nel caso di donne con tre e più figli.
Pare dunque evidente, come la situazione del lavoro femminile in Italia sia ancora fortemente ed erroneamente legata a quella familiare.
Altro dato inquietante arriva nuovamente dall'Istat, che segnala come il 30% delle donne occupate decida di lasciare il lavoro dopo la gravidanza.
Tutto ciò senza nemmeno sfiorare i dati riguardanti i licenziamenti relativi ad una sopraggiunta maternità o quelli sulle forti differenze di stipendio tra i sessi, a parità di mansioni.
Una volta presa coscienza di questa situazione vergognosa e potenzialmente palese anche alle menti più restìe ad accettare una differenza sociale, quali potrebbero essere effettivamente le soluzioni?
In primo luogo, sarebbe necessaria una divisione maggiore del lavoro domestico.
Nel rapporto del 2015 in materia di congedo parentale e di paternità dell'UE vengono menzionati alcuni dei paesi in cui le normative in merito a maternità e paternità sembrano promuovere una maggiore parità: in Portogallo - per esempio - per i padri sono previsti 20 giorni di congedo di paternità obbligatorio ed esclusivo (dunque non trasferibile alla madre) e in Germania la legislazione concede benefit ai genitori che condividono le responsabilità parentali. Aumentare gradualmente l'impegno paterno a seguito dell'avvento di un figlio, ridurrebbe di molto il peso materno, che affligge soprattutto le donne in ambito professionale.
Quando le donne decidono di restare a casa per più di un anno e mezzo, il ritorno al lavoro diventa molto difficile: condividendo il tempo di congedo con il padre, vi sarebbe una miglior distribuzione del lavoro domestico tra i due genitori, facilitando così il ritorno per entrambi al lavoro. Verrebbero primariamente, infatti, evitate le difficoltà connesse a dei congedi molto lunghi, in grado di ostacolare il reinserimento nel contesto lavorativo.
In secondo luogo, vi potrebbe essere un maggiore interesse da parte
dai datori di lavoro nel creare condizioni favorevoli affinché i dipendenti siano sereni dal punto di vista familiare e, dunque, più produttivi. Questa condizione può realizzarsi se c’è la certezza che i propri figli siano in buone mani. Un esempio? Nel caso di uno sciopero a scuola: come non sacrificare la giornata di lavoro?
In Germania, per citare un paese nettamente più all'avanguardia, è possibile portare i figli a lavoro, ovviamente con dei limiti e in situazioni eccezionali.
Tuttavia, in molti settori o aziende portare i pargoli in ufficio non può essere un’opzione contemplata. Quando il tipo di lavoro non permette queste flessibilità, come fare? Maggior ausilio dovrebbe provenire dalle istituzioni scolastiche: esistono ancora molte scuole primarie che non offrono servizi di mensa, ad esempio.
Questi sono solo un paio dei tanti esempi pratici che potrebbero portare a un'evoluzione della situazione lavorativa femminile.
È comunque necessario, in primis, che avvenga un importante e repentino cambio culturale e di mentalità. Un approccio nuovo al modo di concepire la donna, che promuova, nel tempo, la riformulazione (e non solo) anche dei modelli di business.
La possibilità di creare i meccanismi necessari per poter rispettare i diritti delle donne esiste e non dovrebbe più aspettare oltre. Facendo sì che le donne con il desiderio ed il coraggio di diventare madri non debbano immolare se stesse di fronte al mercato del lavoro.

Isabella Rosa Pivot

(Originariamente pubblicato su www.valledaostaglocal.it)

lunedì 29 giugno 2020

Femininam Homo

Lilith è Donna. È un aspetto - o più - del nostro carattere. È irriverenza verso un sistema che deve cambiare


IL GIARDINO DI LILITH: Femininam Homo


Ma chi è Lilith esattamente? È una figura presente nelle antiche religioni mesopotamiche e nella prima religione ebraica. Nella religione mesopotamica, Lilith è il demone femminile associato alla tempesta, ritenuto portatore di disgrazie e malattie. Per gli antichi ebrei, invece, era la prima moglie di Adamo (antecedente ad Eva): fu ripudiata e cacciata dal Giardino dell'Eden, poiché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.Alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescente emancipazione femminile in occidente, Lilith diventa il simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile.
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Femininam Homo
Il femminismo nasce per rivendicare pari diritti tra i generi. Nel corso della storia e, ahimè ancora oggi, le donne sono state ampiamente discriminate e sottomesse dal sistema patriarcale. Le donne sopportano tante di quelle violenze, umiliazioni e negazioni dei loro diritti che, spesso, neanche se ne accorgono; abituate fin da piccole ad un meccanismo nocivo e ripetitivo. Anche gli uomini, però, subiscono quotidianamente le ripercussioni di questo meccanismo.
Ho chiesto a degli amici di raccontarmi i disagi che avvertono di riflesso da questa società maschilista e che vorrebbero non si venissero più a creare. Dai loro racconti, sono emersi sette punti in comune, che ho deciso di riportare e analizzare in questo articolo, interamente dedicato agli effetti negativi del maschilismo sugli uomini. Nella speranza di far comprendere, con ancora più forza, che il sistema patriarcale risulta un danno per entrambe le parti.
1) Io non ho paura Il sistema patriarcale prevede l’immagine di un uomo “capo-famiglia”: virile, forte, impassibile. Le emozioni sono debolezze e le paure non sono concesse. La pressione sugli uomini, in tal senso, è fortissima. La maschera che si pretende indossino, logora in molti. Non vi è nulla di sbagliato nelle emozioni, tanto più che reprimerle porta a un aumento della violenza e delle malattie.
2) Non guardi il calcio?! Come per le donne, anche i gusti degli uomini sono definiti a priori. Un uomo che non si adegua; che sa stirare molto bene, ma non aggiustare la lavastoviglie (ad esempio); un uomo etero che si appassiona di moda o ad altri interessi attribuiti solitamente al genere femminile; non è considerato tale. Le libertà vengono negate a favore della sicurezza degli stereotipi, per l’ennesima volta.
3)Un uomo non si fa mantenere In una situazione lavorativa paritaria, le difficoltà economiche possono capitare da ambo le parti. Un uomo non vale meno se non guadagna di più della donna: il concetto economico viene associato alla virilità, impedendo il libero arbitrio della coppia, che dovrebbe gestire questo aspetto nell’alternanza e/o nella maniera che ritiene più opportuna. Senza ingerenze o giudizi esterni.
4)Buon Padre La figura del padre è vista come severa e lontana, nel sistema patriarcale. É la donna ad occuparsi della prole, relegando il compagno ad un genitore di serie B. Non tutti gli uomini si identificano in questa figura e vorrebbero essere più presenti, se non occuparsi interamente loro dei figli. Un buon padre, presente, non è un uomo meno virile.
5)Fissati con il sesso Il concetto di “uomo-animale” è tra i più dannosi per entrambi i sessi. Non tutti gli uomini sono fissati con il sesso e non vi è nulla di sbagliato in ciò. La sessualità è una questione privata e come tale andrebbe gestita, senza affidarsi ad erronei stereotipi in grado di creare profonde ferite ed insicurezze.
6)Violenza psicologica La violenza ha varie forme. La violenza psicologica colpisce sia gli uomini che le donne, eppure nel primo caso se ne parla molto poco. Collegandoci con il primo punto, oltretutto, abbiamo come risultato che gli uomini tendono loro stessi a non parlarne, per paura di essere giudicati deboli e “femminucce”. La violenza psicologica è, però, un male sottile capace di distruggere le sue vittime.
7)Macho Man I canoni estetici impossibili non sono solo una piaga femminile. Anche gli uomini patiscono la massiccia campagna mediatica nei loro confronti: l’uomo deve essere “grosso”, muscoloso, imponente. Altrimenti, è meno uomo. La sofferenza che deriva da questi bombardamenti mediatici può essere molto forte anche per loro.
Queste sono solo alcune delle tante ripercussioni negative del sistema patriarcale sugli uomini. Discriminazione e violenza femminile e maschile sono facce di una stessa medaglia: si influenzano reciprocamente e rendono entrambi i generi schiavi di un sistema che li vuole tali. Essere femminista, non significa combattere per una presunta superiorità femminile, ma lottare per ottenere pari diritti e doveri; maggiore libertà; più soddisfazione personale che sociale. Sia per la donna, che per l’uomo.

Isabella Rosa Pivot

(articolo originariamente pubblicato su www.valledaostaglocal.it)